Spiritualità dell’architettura. Il Vuoto

Questo e i prossimi articoli costituiscono parte di una riflessione sul senso dell’architettura e sulla necessità di coltivare, attraverso il design, una spiritualità contemporanea.
Attraverso queste riflessioni, che per gran parte attingono nutrimento dallo studio dell’estetica Zen, si articola la possibilità di un nuovo paradigma progettuale incentrato su una pedagogia dell’attenzione e della cura. L’essenza dello spazio assume in questa prospettiva un significato educativo quale strumento esperenziale per allenare il corpo e la mente ad una nuova forma di “presenza” e di relazione con il mondo.

Foto: Heian-jingu shinen, fonte: Wikimedia commons

Il design del Vuoto come ascesi creativa

In occidente siamo soliti pensare al Vuoto come ad una assenza, una mancanza, qualcosa che non c’è. La progettazione degli spazi e degli oggetti, a parte qualche rara eccezione, si articola infatti sempre intorno al pieno, inteso come materia, come forma e infine anche come presenza, nell’opera, della soggettività dell’autore.

Nella tradizione estetica dell’estremo Oriente, in particolare nella sensibilità nipponica, la ricerca del vuoto si esprime attraverso la costruzione di spazi leggeri, naturali e transitori che hanno il compito di ridurre le distrazioni mentali e riportare l’esistenza umana alla sua interdipendenza con tutto ciò che esiste.

Ciò che avviene nelle arti come la scrittura Haiku – dove la riduzione della quantità di parole invita a portare l’attenzione su tutto ciò che circonda gli oggetti e gli eventi descritti, – o nell’arte dell’Ikeabana –  dove ogni elemento non possiede significati propri ma li acquista solo in relazione agli altri – avviene anche nell’architettura tradizionale dove il rapporto tra gli spazi è funzionale a far emergere la natura  e l’essenza stessa del vivere come continuo cambiamento (impermanenza) e in rapporto  con la natura.

Il Vuoto, prima ancora di essere un principio formale, è un valore che modifica i consueti modi di percepire lo spazio e il tempo. E’ via estetica che risente delle influenze Buddhiste e Taoiste, nella quale la realizzazione stessa dell’opera è concepita come pratica di attenzione e di contemplazione da parte di colui che la realizza. Il progettista stesso infatti si incammina nella ricerca espressiva di una sottrazione della propria presenza all’interno dell’opera prodotta, compiendo un processo di consapevolezza e un lavoro tanto sul corpo che sulla mente per  creare quelle condizioni fisiche che rendono possibile la manifestazione delle cose per quello che sono.

Il “fare” è dunque anch’esso una pratica di attenzione e di sensibilità che richiede ascolto, concentrazione e comprensione profonda dell’essenza delle cose oltre la loro apparenza.

Mi domando se una tale predisposizione d’animo non sia oggi un requisito fondamentale del cambiamento, prima ancora di qualsiasi soluzione tecnologica. Lungi dal voler considerare la tecnologia uno strumento poco efficace per valorizzare le risorse naturali, penso che occorra innanzitutto promuovere un nuovo rapporto con ciò che ci circonda. Se è vero che non si può insegnare ad amare, si può tuttavia modificare il tempo e lo spazio del nostro vivere affinché possa nascere in noi la possibilità di una nuova relazione, di una nuova postura ecologica.

In questo senso questa riflessione sul Vuoto, che rimanda al più profondo concetto di Vacuità della cultura Buddhista, secondo il quale tutte le cose sono vuote in sé in quanto interdipendenti, desidera essere una riflessione su una nuova possibilità progettuale nella quale l’opera architettonica si fa strumento educativo e percorso pedagogico verso una modalità del vivere basata sulla consapevolezza.

Qui di seguito elenco qualche esempio pratico tratto dall’architettura tradizionale giapponese che ci aiuta a comprendere come sia possibile, portando l’attenzione sul Vuoto, costruire spazi e atmosfere che invitano alla contemplazione e a una diversa qualità dello stare.

Gli esempi qui riportati non rappresentano di per sè una risposta, o una soluzione preconfigurata nel loro aspetto estetico superficiale, ma piuttosto sono un invito a portare la riflessione sul “processo” che essi generano nel fruitore.

Purificazione: Roji, il sentiero di pietre

Il giardino della casa da tè accoglie un sentiero di pietre irregolari che invitano il visitatore a rallentare il ritmo del cammino. Questo rallentamento è un esercizio di attenzione necessario a predisporsi alla cerimonia del tè.

Il Vuoto tra una pietra e l’altra ha il senso compositivo di alterare il comportamento del visitatore e indurlo in uno stato contemplativo. La distanza, come l’irregolarità delle pietre contribuisce a generare una maggiore attenzione ai propri passi. Percorrendola, il corpo e la mente devono assumere un atteggiamento di ascolto e di concentrazione.

Apertura: Fusuma, le pareti interne

Le pareti interne delle casi tradizionali giapponesi sono utilizzate come divisori provvisori, scorrevoli e amovibili. Ogni stanza può cambiare dimensione e volume, aprendosi alle altre e mettendo in comunicazione tutta la casa, ovvero arrivando a coincidere con tutta la casa. Un principio di evoluzione architettonica assai diverso da quello occidentale, che procede invece attraverso l’acquisizione di volumi aggiuntivi attorno ad un nucleo centrale.

La sottrazione nipponica coincide la possibilità di relazione, di comunicazione e di ampliamento dell’essere uno con il tutto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Foto: Villa imperiale di Katsura, fonte: Art Kyoto

Essenzialità: Yokahu, l’arredamento e gli oggetti

Se hai una teiera in cui fare il tè, ti basterà quella.
Quanto gli manca di sè a colui che ha bisogno di tante cose?
– Rikyu Hyakushu

La riduzione all’essenziale è la qualità primaria dell’estetica tradizionale giapponese.
Questo approccio non ha niente a che vedere con il minimalismo modernista occidentale, perchè è ancora una volta carico di valenze spirituali.

L’essenziale corrisponde alla scelta consapevole della leggerezza, requisito che permette il cambiamento in ogni momento della nostra nostra vita. L’essenzialità nipponica, nei suoi valori tradizionali rimanda al principio Buddhista del non attaccamento. L’aspetto materiale di questo valore, ovvero il non attaccarsi alle cose e utilizzare solo quello che serve, è lo specchio di un atteggiamento profondo nei confronti delle cose, una sorta di rispetto. Gli oggetti più semplici acquisiscono valore non per le loro proprietà fisiche o il loro costo, ma per la scelta e la cura con cui entrano a far parte della nostra vita. L’esclusività che essi emanano nasce dalla postura etica di una scelta coerente e spirituale, oltre che dalle caratteristiche spesso naturali e imperfette dei materiali con cui sono realizzati.

Il rapporto con gli oggetti è simile al rapporto con la propria mente. La riduzione all’essenziale è una riduzione dell’inquinamento sensoriale che affolla il nostro respiro e con esso il nostro vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Foto: Teiera di Takeshi Omura

Un approccio etico

Il Vuoto nell’architettura giapponese è dunque tutt’altro che una mancanza. Si direbbe piuttosto che esso sia garanzia di una continuità etica ed estetica tra il modo di intendere la vita e il rapporto con la Natura. Non un puro esercizio minimalista, ma l’elemento di continuità tra mondo interiore e mondo esteriore, tra spazi interni e spazi esterni. Il vuoto rappresenta ad una pratica della presenza mentale. Il design del “qui e ora”.

Da un punto di vista spirituale il Vuoto nel design degli spazi e delle atmosfere non è un esercizio formale ma piuttosto un esercizio “formativo” che ha lo scopo di “mettere in forma l’esperienza” e di proporre una vera e propria “arte del vivere”. Rappresenta l’invito ad una attenzione etica nei confronti di tutto il mondo vivente, lo stimolo a sviluppare una maggiore consapevolezza di essere parte integrante del corpo cosmico universale.

L’azione consapevole stimolata dal Vuoto è una pratica interiore, una forma di meditazione che pulisce il corpo e la mente da ciò che è superfluo, invitando entrambe  sperimentare quel senso profondo di felicità che nasce nella leggerezza e nella consapevolezza di essere interconnessi con ciò che esiste.

 


 

Bibliografia

Pasqualotto G, Yokahu. Forme di ascesi nell’esperienza estetica orientale, Esedra, Padova 2001

Pasqualotto G, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia 1992