Dall’abitare naturale alla città foresta, dall’ascolto alla cura, essere architetti rispettando se stessi e il pianeta.
Di seguito l’intervista uscita su Core Online sull’architettura terapeutica, il design relazionale e la città foresta. Buona lettura!
“Per la serie ‘forse non tutti sapete che’, abbiamo intervistato Ilaria Vasdeki, architetto e designer, ricercatrice e fondatrice di Madori Studio e del Laboratorio Casetta Verde, che ha proposto numerosi momenti di partecipazione e rigenerazione sul territorio.
Abbiamo scoperto un mondo dove l’architetto è un medico, che progetta una città foresta dove si può respirare a pieni polmoni e perdersi tra giardini segreti, rifugi e spazi di pace. Non possiamo non proporvelo. Buona avventura.
Ilaria Vasdeki, hai fondato uno studio che si chiama Madori, Architettura Naturale e Design relazionale. Che significa Madori?
«Madori è un termine giapponese che significa ‘la via del MA’. Il Ma è un concetto presente in tutta la cultura giapponese, nelle arti marziali, nella arti visive, nell’architettura, nell’arte del comportamento e sostanzialmente vuol dire ‘vuoto’. La via del vuoto è il concetto giapponese del lasciare uno spazio vuoto tra le parti. Madori applicato a uno studio di architettura è un’ispirazione estetica, influenza il modo di progettare gli spazi interni. Si richiama ad un linguaggio architettonico fondato su principi di essenzialità, trasformabilità e leggerezza. Ma anche di adattabilità nel tempo alle esigenze future. È multidimensionale come idea: significa lasciare una possibilità. Sia in termini architettonici, quindi lasciare spazio; sia in senso ecologico ovvero di basso impatto ambientale; sia in senso psicologico, quindi di non avere degli spazi saturi ma avere degli spazi dove il corpo si può esprimere e non è soffocato dagli oggetti; ed infine in senso proprio temporale, cioè il vuoto permette che ci sia una possibilità di cambiamento».
Che significa architettura naturale?
«Architettura naturale è una definizione che non nasce nell’accademia ma è un termine che ho ricercato per definire un approccio all’architettura che fosse comprensivo di varie sfumature. Da un lato sicuramente un approccio “tecnologico” a tutte le produzioni della bioarchitettura, dall’altro però un approccio proprio ad un stile di vita più semplice, più essenziale e costruito con un più intenso rapporto con la natura.Un’architettura naturale è un’architettura che ti riporta all’autenticità dello spazio e dei materiali, che ti riporta all’autenticità del contatto con le piante e che ti aiuta e ti sostiene nel tuo percorso evolutivo. È un’architettura che cerca di ricostruire un rapporto con la natura sostanzialmente, anche in ambienti estremamente artefatti quali possono essere le grandi metropoli e gli appartamenti».
E il design relazionale?
«Nasce da un lungo periodo di ricerca e di sperimentazione che ho speso nel campo dell’arte relazionale. È un design che costruisce relazioni. Che quindi, attraverso l’oggetto, attraverso la costruzione di un ambiente, attraverso la costruzione di un’architettura, propone nuove relazioni sociali, propone nuovi modi di abitare, propone nuove e inedite interazioni. È un design fortemente sociale, anzi più che sociale, è un design che punta all’essere umano. È interattivo, non è un design che si esprime esclusivamente nel suo aspetto formale ma anzi nella sua capacità di stimolare delle interazioni».
(per il lettore che non riesce ad immaginare un oggetto che propone relazioni, qui un esempio, foto n°4)
C’è, e se si, qual’è, la differenza tra il tuo approccio e la bio-architettura, secondo la tua sensibilità. Cioè, in pratica, perché non ti sei semplicemente chiamata ‘studio di bioarchitettura’?
«Innanzitutto io ho sempre avuto una difficoltà a scoprirmi o a identificarmi in qualcosa che già esiste. La bioarchitettura è un’architettura che rispetta la vita e quindi è assolutamente affine alla mia linea di pensiero e di progetto. Nell’architettura naturale però io vedo una deriva per certi versi più visionaria, che è legata un po’ alla mia utopia di città e di abitare del futuro, che è la riconquista selvaggia da parte della natura degli spazi antropizzati. In generale il concetto di naturale evoca un rapporto diretto con la natura, così come è».
È vero che lavori ‘in ascolto’ del cliente? Che significa?
«Allora la domanda è bella, nel senso che io ‘vorrei’ lavorare in ascolto del cliente. Ma questo è molto difficile, perché il cliente non ha idea che l’architetto possa essere una persona che ascolta. E quindi le richieste che mi vengono dai committenti sono richieste da una parte sempre molto tecniche, dall’altra dimensionali, legate a funzione e metri quadri. Io ho sviluppato nel tempo un’idea di architettura che ascolta il cliente e cerca di capire quali possono essere delle soluzioni di carattere ambientale, e quindi di architettura o di arredamento, che possano sostenere la vita quotidiana del committente a 360 gradi. Nelle attività che il committente svolge, negli hobbies, nelle dinamiche familiari e chiaramente a seconda le tipologie di spazio. Quindi è più un’idea di un’architettura che cura, che punta al benessere della persona. E si può puntare al benessere nella misura in cui si conosce la persona, si conoscono le problematiche, le risorse, e della persona e dell’ambiente dove vive. In questo senso ho cercato poi di sviluppare una serie di servizi che andassero in questa direzione dell’ascolto. Anche se non sono servizi facili da proporre, perché la consulenza dell’architetto sull’abitare si avvicina di più alla consulenza di un medico, che capisce quali sono le problematiche e dà delle risposte in termini di cura. Ma l’ambiente e lo spazio possono curare, e sto cercando di costruire una relazione con i clienti in questo senso. Questo però richiede prima di tutto di decostruire un immaginario dell’architetto come consulente tecnico scientifico e di pensare invece di più a un architetto come… a un omeopata».
Che c’entra lo yoga con l’architettura? Perché qualcosa c’entra, l’abbiamo capito…
«Ma l’abbiamo capito sicuramente a livello di esperienza personale, nel senso che la pratica dello yoga ha influito molto su una mia visione da una parte della vita e dall’altra della professione. La pratica dello yoga ha sostanziato una serie di ricerche che ho fatto nell’ambito delle culture orientali, della cultura architettonica tradizionale giapponese, dello zen e del taoismo, sulla ricerca di uno spazio di pace. E sulla ricerca di uno spazio in cui i sensi non vengono sollecitati, ma viene sollecitato l’ascolto del proprio sé, del proprio paesaggio interiore. In un certo senso la pratica dello yoga può avere influito sul mio modo di progettare, nel senso che sempre più il mio lavoro tende a una ricerca dell’essenziale, tende a togliere oggetti, togliere architettura e lasciare spazio alla persona. Altre strade le sto ancora cercando».
Che cos’è l’inquinamento indoor?
«Noi temiamo molto l’inquinamento delle nostre città perché sappiamo di vivere in ambienti assolutamente poco salutari. Pochi di noi sanno che quest’inquinamento è anche negli spazi interni. Anzi negli spazi interni si riversano sia i componenti dannosi per la salute presenti nell’aria aperta che quelli presenti nei materiali e sugli oggetti che possediamo. E quindi dalle colle alle vernici agli elettrodomestici siamo soggetti a moltissimi tipi di inquinamento, proprio nei luoghi chiusi dove passiamo l’80%, il 90% del nostro tempo. Un’attenzione in questo senso è molto importante, e ci aiuta a costruire degli ambienti più sani. Bisogna imparare a leggere le etichette ad esempio, che è la stessa cosa che stiamo iniziando a fare per gli alimenti, per evitare i prodotti tossici. Scegliere vernici, tessuti, materiali, soluzioni per interni che abbiano un basso tasso di componenti chimici volatili, che vengono rilasciati sia nel momento dell’applicazione sia nel tempo. E quindi privilegiare materiali che hanno una provenienza naturale, ad esempio nell’ambito del legno il massello, piuttosto che i tessuti di origine biologica. Evitare il più possibile la plastica, anche se è un materiale che ha un ciclo di vita molto lungo. In generale avvicinarsi ad un’idea di consumo responsabile anche nelle scelte di arredamento e nelle ristrutturazioni».
Quanti dei tuoi clienti conoscono prima di incontrarti la risposta alle domande che ti ho fatto?
«Nessuno (ridendo). No in parte il sito web un po’ racconta questi temi, in parte c’è tanto lavoro da fare per raccontarli. Mi rendo conto ogni volta che incontro un nuovo cliente che gran parte del tempo lo spendo a trasmettere indicazioni riguardo ciò che è salutare e ciò che non lo è».
Qual’è la tua visione della città del futuro?
«Una città foresta. Avevo questa idea ancora prima di leggere quel bellissimo libro di Maurizio Corrado, ‘Il sentiero dell’architettura porta nella foresta’. Perché la città foresta? Ma innanzitutto da un punto di vista scientifico ed ecologico tutte le nuove tecnologie che hanno a che fare con la mitigazione dell’inquinamento utilizzano soluzioni verdi e quindi tetti verdi, pareti verdi. Per filtrare le polvere sottili, per mitigare l’irraggiamento solare sulle pareti e di conseguenza diminuire l’uso dei condizionatori, eccetera. Poi ci sono altri due motivi secondo me. Un motivo è il fatto che le città non hanno più spazi per l’avventura. Lo spazio antropizzato, a parte l’abbandono, è stato disegnato, organizzato, pianificato tutto. Manca però del tutto lo spazio per il selvatico e reintrodurre la natura in città vuol dire anche reintrodurre un elemento dal quale come società ci siamo distaccati ovvero l’elemento del selvatico come organismo che cresce nonostante la tua presenza, un elemento che crea spazi d’ombra, spazi da esplorare, spazi da re-immaginare. È un po’ la via del MA nella città. Quando l’elemento antropizzato si fonde con l’elemento naturale e si crea un ibrido, però in questo ibrido si manifestano nuove possibilità, nuovi tipi di esperienza quotidiana. Dove non c’è più soltanto il giardino progettato, strutturato per l’accesso a tutti, per quanto questo sia importante, ma c’è anche il giardino segreto, la selva oscura piena di vegetazione, che lascia spazio ad un immaginario, all’esplorazione e alla scoperta. E anche alla costruzione di nuovi spazi spontanei, dalla capanna al rifugio. E il terzo motivo lo vedo collegato al magico. Cioè a quello che la natura si porta storicamente con sé, che è l’aspetto di connessione con un mondo che non si può tradurre con una regola matematica, con una prospettiva costruita a tavolino, ma è un mondo di presenze, di vibrazioni, che non sono riconducibili ad un assetto razionale del mondo quanto invece ad un primitivo rapporto tra l’uomo e la natura. Dove nella natura ci sono tutte quelle forze che permettono all’uomo di sopravvivere e che sono le forze con cui occorre a mio avviso oggi fare pace per scoprire quanto la vita sia nella natura e quanto la natura sia fondamentale per continuare a generare la vita».
A questo punto, se sei un vero medico, dicci una cosa semplice, facile, gratuita e veloce che possiamo fare tutti oggi a casa per abitare in maniera più naturale!
«Una cosa che si può fare è imparare a respirare, con attenzione. E a far respirare i propri spazi…togliendo un oggetto al giorno».”